Karl-Gustav Ruch

Dietro la parete

 

Giovedì, 3.9.

Non è ben determinabile da dove venga; so solo questo: è nel vecchio muro che ci separa dalla casa dei vicini e contemporaneamente ci unisce ad essa. Viene dal terzo o dal quarto piano, oppure viene condotto all’insù dal primo piano o dal parterre attraverso canali imperscrutabili? Si sente lì un leggero raschiare, come se qualcuno dall’altra parte passi aritmicamente con una stilografica sul ruvido intonaco; presto sembra piuttosto un delicato raspare, grattare o strisciare, poi un battere ovattato. Si sposta qua e là lungo la parete, talvolta è talmente vicino da potersi afferrare, poi è di nuovo così lontano e debole che non sono sicuro di sentire davvero qualcosa o se me lo sto semplicemente immaginando. Consulto i vocabolari: raspare, stridere, grattare, scavare, scalfire, grattugiare, strepitare, frignare, crepitare, sbatacchiare, scalpicciare, ma temo che si tratti di un rumore cui non ci si possa avvicinare con uno dei vocaboli noti. Poi mi ricordo di mia madre, che si inventava le parole quando non ne trovava una adeguata – e questo accadeva praticamente in ogni frase – e le segno nel mio quaderno: razzolare, sgranellare, sbatacchiare lavorando al piombino, scalpicciare batacchiando. Sottolineo scalpicciare lavorando al piombino. Ma ha il colore sbagliato. Mi rimangio tutte le parole.

E’ rassicurante abitare accanto ad un protettivo muro spartifuoco di cui si conosce la vita interiore. Fino a che non si è presentato questo nuovo rumore, mi era nota non solo la maggior parte dei suoni interni alla parete, ma anche le storie che ad essi sono legate. Lì al terzo piano c’è la vedova Maria, che tossisce. Ogni mattina alle 8.30 mette le stoviglie nel trogolo in acciaio cromato – direttamente dietro la mia scrivania – ed inizia a lavare. Si sente far fracasso, tintinnare, sferragliare, il tubo di scolo gorgoglia accogliente e se lei lascia cadere una padella pesante nel trogolo cade la calcina dal muro. Dopo aver lavato inizia a tossire, appoggia le sue stampelle sul pavimento a piastrelle ed arranca con affanno verso il soggiorno. I colpi sordi degli inserti di piano si allontanano. Si accende il televisore. Talk-show, programmi seriali. Dalle 12,30 circa lei è di nuovo subito dietro la parete, tossicchia e traffica in cucina. Verso le 14,00 sussulta di nuovo familiarmente nel trogolo, poi lo schiantarsi delle stampelle sulle mattonelle, colpi di tosse, la televisione che si accende. La stessa sequenza si ripete la sera. Verso le 21,30 al terzo piano c’è fracasso, per le 22,00 torna il silenzio. Intorno alle 23,00 c’è un leggero vibrare, la vedova russa. Ma il suo letto, quello nel quale venne al mondo 79 anni fa, è accanto alla parete spartifuoco, perché lì ci si sente sicuri, lì ci si sente bene. Nel 1939, durante una delle peggiori notti di bombardamento, poco prima della fine della Repubblica, la ragazza di 11 anni se ne stava nella camera da letto insieme al padre, alla madre e al piccolo Manuel, pressata contro il muro, sotto il crocifisso in legno, c’era fragore, c’erano sibili, attraverso la finestra infranta incalzava il calore del fuoco, ovunque un fumo acre, poi ci fu uno scoppio nel cortile a lucernario, lì attorno crollò tutto, ma il muro spartifuoco se ne restò in piedi sicuro, tanto da trattenere le travi, le camere confinanti e la tromba delle scale rimasero indenni ed il crocifisso in legno, appena inclinato, rimase attaccato sopra la testa di Maria.

Ogni mattina, alle 9,00, inizia a suonare da qualche parte il pianoforte. Le scale musicali imperversano minacciose attraverso il muro. Maggiore, minore, scale in semitono, scale in toni interi, graduati cromaticamente s’avvitano verso altezze vertiginose, cadono in profondità brontolanti e poi risalgono in un tono finale rassicurante; terzine e sestine si distaccano dalla parete, turbinano nell’aria, svolazzano di nuovo e si stendono fragorosamente sull’opera in muratura. Seguono un paio di battute di una fuga di Bach: s’interrompe, ricomincia dall’inizio, il pianoforte s’affatica passo dopo passo attraverso la partitura fino al liberatorio accordo conclusivo in re minore. Alle 10,50 il turbinio di suoni s’interrompe puntuale e si sente sbattere il coperchio del pianoforte. Il maestro ha finito il suo allenamento mattutino, le dita corrono lisce e crede di nuovo nel suo subitaneo sfogo. Alle 11,00 iniziano le lezioni di pianoforte. Lo scoccare di ogni ora viene annunciato con scale musicali, prima velocemente, poi lentamente con sospensioni – insegnante, allievi – poi studi di Chopin, preludi di Bach, l’inizio di una fuga, lentamente, ripetizione veloce, eco trascinante – allievo, insegnante, allievi – poi l’interruzione, il maestro chiude il coperchio del pianoforte.

Durante le pause del pianoforte, tra le 9,15 e le 9,30 si sente scrosciare nel tubo si scarico e per lo più s’inserisce contemporaneamente una tagliente voce di tenore: Qui presso a lei io rinascer mi sento, e dal soffio d’amor rigenerato…E’ Alfredo, così lo chiamo pensando al suo ruolo prediletto ne La traviata, canta, fa la doccia, l’acqua gorgoglia divertita nelle tubature, Vivere io voglio a te fedel. Dell’universo immemore io vivo quasi in ciel,…io vivo quasi in ciel...Dopo la doccia mattutina concede a noi vicini una breve pausa. Poi c’è una porta che sbatte. Alfredo scende le scale saltando come un ragazzino diretto verso la cassetta della posta – lo sento dalla finestra nel cortile a lucernario – e lì cerca la notizia desiderata, perché Alfredo anni fa ha scritto un’opera e un anno sì e un anno no spedisce la partitura in tutto il mondo, a case editrici musicali, a gare e a concorsi. Però la maggior parte delle volte nella cassetta delle lettera trova solo un paio di depliant pubblicitari di una nuova lavatrice, oppure di un servizio di pizza a domicilio, e qualche volta anche una risposta alla sua speranza: Alfredo scorre rapidamente il testo finché non  trova la parola decisiva: purtroppo. La ringraziamo per l’invio della sua partitura e l’abbiamo esaminata con interessa. Purtroppo…Lei è stato così gentile ad affidarci la sua partitura, purtroppo…Abbiamo preso in esame la sua partitura con grande interesse, tuttavia dobbiamo purtroppo…a quel punto Alfredo risale le scale con il passo di un vecchio e per un’ora di lui non si sente più nulla. Verso le 11,00 riprende: fremente di rabbia Alfredo percorre con la sua voce su e giù la scala musicale. Questo dura all’incirca venti minuti. Poi zampetta di nuovo nella tromba delle scale, finché Alfredo non scompare dal mio campo sonoro. Nel pomeriggio lo vedo qualche volta alla stazione della metro vicina all’Opera. Lì diventa Orfeo. Grida arie e recitativi contro quelle pareti maiolicate che lì nei bassifondi fanno eco, rispondendo in una maniera così meravigliosa che è un piacere, Cortese Eco, cortese Eco amorosa, che sconsolata sei, e nel momento in cui arriva o parte un treno lui rafforza il tono e lancia una tirata particolarmente virtuosa: In così grave mia fiera sventura non ho pianto però tanto che basti, il suo squillante tenore si mischia con lo stridere dei freni, con il ronzio degli acceleranti elettromotori, con il battere delle ruote, e in quei momenti lui, Alfredo, si sente Orfeo, si sente come la sua anima sorga nello scrosciare e mugghiare del mondo.

Anche dalla soffitta irrompono di tanto in tanto rumori diretti verso di me. All’incirca ogni mezzora c’è scroscio e gorgoglio nel tubo di scarico che unisce il mio bagno con la doccia di Alfredo e la cucina che si trova sopra di lui. Lassù vive uno scrittore austriaco sulla cinquantina. Arrivò tre anni fa, prese in affitto la soffitta e si piazzò alla sua scrivania. Non l’ho mai visto per strada o al caffè, ma qualche volta lo incontro per le scale, sempre con un grande plico sotto braccio. Fa un cenno, dice servus, mi si avvicina rapido per poi filarsela di nuovo verso il tetto. Una volta mi sono piazzato davanti alla mia porta e gli chiesi conto: Salve, come sta, come va con i suoi scarabocchi? Rimase confuso, gettò la sua grigia coda di cavallo dietro le spalle, si lisciò la barba, si schiarì la voce, come se fosse da tempo che non emettesse più alcuno suono con la sua ugola. – Che cosa, prego, scarabocchi? Io non scarabocchio, scrivo testi letterari. – Okay, dico, a che punto è allora con i testi letterari? – Aveva scritto cinque pezzi per il teatro, centinaia di poesie, anche un raccolta di racconti, ma tutto rimaneva nel cassetto, perché lui non gettava le sue perle ai maiali, l’intera macchina della letteratura di lingua tedesca, l’intera scena letteraria è una grassa sgangherata puttana e lui ne rifugge come il diavolo con l’acqua santa, no, il paragone non è campato in aria, come scrittore ci si dovrebbe tenere alla larga dall’acqua santa e dalle puttane, ci si dovrebbe lasciar cavalcare solo dal diavolo, e proprio qui, in questa regione e lassù nel sottotetto, davvero solo lì – si schiarì la voce e tentò un ghigno – solo lì, nel bel mezzo ma anche al di sopra del fragore metropolitano, trova il necessario isolamento per l’ispirazione demoniaca ecc. ecc. Lui ignorò il mio sguardo ostentatamente rivolto verso il plico che aveva sotto braccio, che immaginavo si trattasse di un pacco contenente un manoscritto destinato ad una casa editrice. Che cosa sta scrivendo ora? Stava cercando un nuovo stile, la sintesi cacofonica. L’opera più importante, quella cui stava lavorando da anni, consisteva di centinaia di microstorie che lui avrebbe voluto comprendere in una sinfonia cacofonica in forma di sonata; ma la difficoltà consisteva proprio in quella connessione cacofonica, e da anni non era impegnato con altro se non proprio con quella sintesi cacofonica, che doveva comprendere i singoli elementi in una più elevata e diabolica totalità cosmica, senza unificare, senza eliminare le contraddizioni, senza armonizzare…Non capii il resto del suo verboso discorso e con una qualsiasi scusa mi congedai da lui frettolosamente. Sono contento che l’austriaco da allora sia tornato al laconico servus ed anche i suoi cacofonici rumori di risciacquo per lo più non mi disturbano, al contrario: mi donano una specie di sicurezza acustica e mi ricordano che accanto alla parete non sono del tutto solo.

 

Venerdì, 4.9.

Il rumore sconosciuto mi irrita, disturba il mio calore familiare. Appoggio il mio orecchio alla parete. Non si tratta di un suono omogeneo e viene provocato probabilmente da più di una persona. Persone? Forse si tratta di topolini o di ratti, oppure di un gatto rinchiuso da qualche parte. Si presenta e prosegue senza una regolarità ben riconoscibile. Posso ricordarmi di questo nuovo rumore ma non posso abbinarlo ad alcuna azione comprensibile. Rimane un rumore senza una storia attendibile.

Un colpo. La parete trema, la calcina si sfalda. Era la porta del vicino sotto, al terzo piano. Me cago en la puta, raglia una voce roca. Uno schianto. Un calcio contro la porta di legno. Hija de puta, que te mato! Era Joan, il figlio, che scassa auto e moto, era Jordi, il marito, che dilapida al bar, ubriacandosi, la sua indennità di disoccupazione, oppure erano tutti e due insieme? Le urla sono difficili da distinguere così come lo sono i calci alla porta. Attraverso la tromba delle scale rimbombano passi furiosi. Poi sento un colpo sotto la porta di casa. Una leggera scossa sotto i miei piedi. Ora nell’appartamento sotto il mio è tutto tranquillo. Troppo tranquillo. Un silenzio che inizia a guaire, a singhiozzare, a piangere, ad urlare, cresce e poi inizia a sparare, come una mitragliatrice: Malditos gilipollas, sinverguenzas, hjios de puta, maleriados, gandulos, subnormales, basura, no puedo mas…Questa è Pepa con il suo assolo, che lei attacca solamente quando la si lascia sola. Di nuovo colpi alla porta. Pepa batte ora a pugno nudo e con le pantofole sulla spessa porta sulla quale prima hanno picchiato forte suo marito e suo figlio prima di uscire infuriati dall’appartamento. Alla fine i colpi si fanno sempre più deboli, le urla scemano, Pepa è sfinita.

Scendo le scale e do un’occhiata. Nell’appartamento c’è silenzio. La porta di Jordi e Pepa, dopo i tanti colpi subiti, presenta una fenditura, attraverso la quale, nel buio della sera, filtra un raggio di luce gialla. Premo il mio occhio nel punto più ampio della fenditura e riesco a vedere la sue scarpe senza punta, quelle da ginnastica di suo figlio e le pantofole di suo marito sul motivo a scacchi bianchi e neri delle piastrelle del pavimento. – Me cago en la puta! urla all’improvviso una voce proveniente dall’appartamento. Sobbalzo e mi spingo verso la parete accanto alla porta. Me cago en la puta! Questo è Rocco, il pappagallo di Pepa, l’unico in casa, che si diverte sempre molto quando ci sono litigate. Getto ancora un’occhiata all’interno attraverso la fenditura. Sulla soglia del soggiorno c’è un fardello di capelli neri. I capelli di Pepa? Una parrucca gettata a terra? In fondo alla tromba delle scale cigola il portone e si muovo i cardini, sento il rimbombo di passi. Guardo giù nel pozzo delle scale. Una mano pelosa serpeggia sul corrimano salendo velocemente la ringhiera. Un affannarsi asmatico. Salgo senza far rumore e me la svigno nel mio appartamento.

 

Domenica, 6.9.

Quiete domenicale. A parte il gorgogliare periodico dei tubi di scarico, l’intera mattinata al muro era stata tranquilla. Si può presupporre che la maggior parte degli affittuari abbiano sfruttato il bel tempo per uscire. Se premo il mio orecchio sulla fredda parete solo un sibilare tedioso. Sssssss. Stacco l’orecchio dalla parete. Il sibilo continua. Si tratta del sibilo del mio stesso orecchio? La prossima settimana devo consultare un otorino?

Dopo pranzo, quando come tutti gli altri che sono rimasti nell’edificio mi corico per la siesta, dorme perfino la parete. Ronfa. Tuba. Sospira. Verso le 17,00 comincia a gemere: ah, oh, due voci che si sovrappongono, poi si spostano, domanda, risposta, affanno ritmico, cresce, decresce, te quieto, te quieto – e infine due grida liberatorie all’unisono. – Eeh, eeh, ripete Rocco, Me cago en la puta! Nessuno sa dove lo facciano, quei due: nella casa di fronte, in quella dietro? Li si sente solo la domenica pomeriggio. Forse salgono in un appartamento che conoscenti mettono loro a disposizione amichevolmente per la loro gioia domenicale.

Nella prima serata attraversa la parete un duro suono musicale. Viene dall’appartamento degli studenti, al quarto piano. Cresce un tratto ritmico di basso, un sintetizzatore guaisce taglienti pezzi timbrici, poi inizia una voce seguendo un ritmo reggae: Aunque madrugue, ni Dios, me ayuda, quiero gritar y salir de mi sombra, en mi pozo solo el eco me sombra…e Rocco sembra essere particolarmente felice di questa animata domenica pomeriggio: Eeh, eeh, me cago en la puta! 

 

Lunedì 7.9.

Stamattina Pepa lungo la tromba delle scale mi ha chiesto se anch’io su da me sentivo nel muro quel rumore particolare. – E’ davvero particolare, come se  qualcuno grattasse continuamente con un chiodo l’intonaco. Qualche volta sembra piuttosto battere, o sferragliare. – Proprio così, grida Olga dal primo piano, presentandosi sbuffante sulle scale, battere e sferragliare, come con una catena. Che non sia…immaginatevi – si dimena con un giornale in mano indicando un articolo intitolato Non è stato ancora trovato il direttore di banca rapito. Il sottotitolo dice: I primi indizi indicano E.T.A. – Al Cafè Ferran gli hanno puntato la pistola alla tempi, balbetta eccitata Olga, in pieno giorno, l’hanno trascinato per strada e devono averlo nascosto qui, nella città vecchia, perché non potevano portarlo lontano, dice la polizia. E’ qui! Olga gesticola in maniera scalmanata con il giornale in mano, tanto che non si può leggere neppure un parola. – Che non sia…quando ho sentito quel rumore da sopra – ma Olga non finisce la frase- Immaginatevi: sferragliare, sferragliare di catene…forse dovremmo chiamare la polizia – Me cago en la puta!, si sente la voce di Rocco dalla porta d’ingresso di Pepa, rimasta aperta. – Chiudi il becco! grida Pepa e chiude la porta dall’esterno. – Polizia? Per nessun motivo, la polizia non entrerà mai a casa mia. Ti arresteranno subito, perché ti prenderanno per matta.

E immagino: dall’altra parte il direttore di banca, con l’abito su misura e la cravatta, spalle alla parete, i polsi escoriati legati dietro la schiena con una catena fissata con bullone rotondo al nostro muro spartifuoco, quello che con il suo spessore di 30 cm ci protegge l’uno dall’altro, e ad ogni movimento la catena sferraglia, raspa l’intonaco, ad ognuno dei suoi sussulti e delle sue spirali colpisce la parete e tira la vite ad anello ed il muro spartifuoco dilata l’invisibile dramma nel nostro soggiorno, mentre noi sorseggiamo beatamente il nostro thé.

 

Mercoledì, 9.9.

Ho chiamato l’amministratore. Ha riso quando gli ho detto degli strani rumori nella parete. – Si stente grattare sul muro? Ha mai sentito parlare delle termiti? Ne è infestata l’intera città, il centro ha subito addirittura una vera e propria infiltrazione da parte di questi animaletti, s’intrufolano di casa in casa, forano e penetrano le travi in legno e i telai delle porte, a migliaia si divorano la via il gesso e la muratura, e quando rodono li si può sentire poggiando un orecchio alle travi.

Cerco nel mio dizionario: Molte specie hanno il corpo di colore bianco o bianco-giallo. Di regola le termiti sono lunghe tra i 2 e i 20 mm. S’introducono a frotte nelle abitazioni umane e distruggono letteralmente qualsiasi elemento in legno rodendolo interamente al suo interno e lasciando intatta la superficie esterna, così che oggetti apparentemente intatti finiscono con lo sgretolarsi al minimo urto. A migliaia dunque questi insetti bianchi si fanno largo con le loro mandibole attraverso il nostro vecchio muro spartifuoco alla ricerca di una trave in legno, si aprono passaggi verso l’alto, verso il basso, di qua verso i vicini o verso di me, ci scavano, rovistano e rodono, finché un giorno il muro non è completamente vuoto e ci trascina nell’abisso.

Non mi fido a lasciare appoggiato l’orecchio alla parete.

 

Giovedì, 10.9

Non posso credere che il rumore sia causato solo dalle termiti. Forse il grattare e rodere delle termiti si mischia in un guazzabuglio acustico, ma dev’esserci qualcos’altro nella o dietro la parete, anche Pepa me lo ha confermato oggi. Come un filo sottile, un leggero guaire corre attraverso la catena del rumore: si distingue chiaramente se si poggia raso l’orecchio sulla parete maiolicata della cucina. Forse un cane imprigionato, o un gatto – oppure un bambino?

Talvolta m’immagino che dall’altra parte della parete sieda un altro, un altro che, come io origlio alla parete, ascolti la mia vita e mi consideri un folle. Le pareti hanno orecchi. E quanto più ci penso, tanto più diventa un’idea fissa.

 

Venerdì, 11.9.

Pepa ha parlato ieri con un’amica della casa dei vicini. Si tratti di rumeni irregolari, più precisamente sono zingari. Abitano alla stessa mia altezza, al terzo piano. Se si tratti di una o più famiglie, con queste persone, naturalmente, non si può mai dire con certezza. La tromba delle scale brulica proprio di zingari, cucinano nel soggiorno, a fuoco aperto, l’intera tromba delle scale puzza di un fumo stagnante e di carne arrosto, si sentono anche grida di bambini provenire dall’appartamento, ma loro non possono uscire, sono soli e rinchiusi lì dentro per tutto il giorno, mentre gli adulti bighellonano per la strada e fanno i loro oscuri affari. I bambini sgorbiano e graffiano la parete con le unghie delle dita, con cacciaviti e con vari oggetti che capitano loro tra le mani; non vanno a scuola, dunque non hanno lavagne, ecco il motivo dei rumori alla parete.

Olga pensa che non siano rumeni. Si rifà alla parrucchiera del pianterreno, che ritiene abitino di sopra negri, africani neri, neri come la notte. Li vede quando entrano nella casa dei vicini. Immigrati. Sono arrivati per mare con un gommone, come la maggior parte di quelle povere creature, appartengono sicuramente a una di quella famiglie di cui si è parlato ultimamente in televisione: un guasto al motore, il gommone va alla deriva in mare aperto, otto adulti e cinque bambini assetati, potevano lanciare in mare solo i corpi dei bambini morti, quelli degli adulti erano troppo pesanti per essere ammucchiati sulla parete di bordo, così se ne stavano l’uno sull’altro, quando vennero trovati, i vivi sui mezzi morti e i mezzi morti sui morti e durante l’azione di salvataggio, compiuta mentre c’era mare in tempesta, ne annegarono altri tre, perché non sapevano nuotare, quei poveri luridi. Le donne ora si prostituiscono e gli uomini sono i loro magnaccia.

 

Sabato, 12.9.

Un vicino che abita lì di fronte mi ha raccontato al Cafè che si tratta di persone di carnagione scura, ma non negri, piuttosto arabi, o pakistani con barba, maomettani per l’appunto. E’ tutto un andare e venire. Immagina che gestiscano lì una moschea illegale. Alcuni arrivano con il proprio tappeto per la preghiera. Hanno tutti ulcere, cicatrici e ferite in parte aperte sulla fronte, perché durante la preghiera battono la testa sul pavimento. Poi sottolineò ancora una volta: pakistani, arabi, maomettani – e dopo una pausa: pensa, stanno preparando qualcosa…non sarebbe la prima volta che complottano qualcosa senza che alcuno immagini cosa, e lo stato paga loro perfino l’alloggio popolare e sovvenziona le loro moschee. Solo i socialisti possono essere così stupidi.

Mi dirigo verso la casa dei vicini e guardo i nomi indicati sotto i campanelli. Al terzo piano ci sono tre appartamenti. Suono anzitutto al 3.1. Un fruscio. Poi cricchia l’interfono. – Sì! Colpi di tosse. E’ la vedova. Me ne sto in silenzio poi suono al 3.2. Risponde una voce di bambino: Sì, quien? Cercavo gli immigrati, dico. Nessuna risposta. Dove abitano gli immigrati? – I cinesi nel parterre, oppure i filippini al secondo piano? – Non ci sono qui rumeni o negri? No, però al terzo abitano pakistani, o qualcosa del genere. In quale appartamento? Credo sia la terza porta. Suono al 3.3. Un cricchio nell’interfono. Un fruscio, silenzio. Suono un’altra volta. – Omar? E’ una voce di donna. Omar?

Vado a casa, accendo il computer e nell’elenco telefonico online cerco la via, il numero civico, quello del piano e dell’appartamento per Omar. Sullo schermo compare un numero di telefono ed un nome: Omar A-Sharar. Faccio il numero e lascio suonare. Sento dei passi dietro la parete. Riattacco. Ora sento distintamente un borbottio e dei colpi. Preghiere musulmane? Potrebbero anche essere i soliloqui della vedova, ma non riesco a togliermi quell’immagine dalla testa: il sollevarsi ed abbassarsi ritmico in direzione de La Mecca, il battere delle teste sul pavimento. Allah è grande. Allah è potente. Allah è con i risoluti.

 

Domenica, 13.9.

La mattina ho provato a telefonare ancora un paio di volte. Al terzo o quarto tentativo sento un cricchio nella linea, la voce dell’altro in un inglese stentato: Hello, you Jack? Rispondo: Yes.- Call this night. Dico: Okay. Poi riattacca.

I vicini, a causa del brutto tempo, sono rimasti a casa e la parete è satura di rumori. Un sonnellino pomeridiano non è neppure pensabile. La vedova fa baccano con le stoviglie nel trogolo d’acciaio cromato, in forma sinottica s’aggiunge la tonalità reggae proveniente dall’appartamento degli studenti, Aunque madrugue, ni Dios, me ayuda, quiero gritar y salir de mi sombra, en mi pozo solo el eco me nombra, c’è brusio e gorgoglio nella tubatura dell’acqua, lo scrittore che sta su in soffitta risciacqua nel cesso i suoi appunti cacofonici, Alfredo si fa la doccia e canta divertito Qui presso a lei io rinascer mi sento, e dal soffio d’amor rigenerato…, anche il pianista è rimasto a casa e vorticano scale musicali attraverso la parete, in maggiore, in minore, cromaticamente su e giù, anelito ritmico, ah, oh, te quieto, que te quieto, catene arrugginite vengono sfregate su polsi feriti, mani sanguinanti di bambini scalfiscono l’intonaco, maomettani dalla pelle scura battono i loro capi feriti sul muro, Allah è grande, Allah è potente, qualcosa brontola geme canta fruscia gorgoglia batte rappa geme guaisce ronfa e russa – poi una fessura nella parete, l’orribile e fisso occhio dell’altro, migliaia di bianche termiti strisciano dalla cavità, mi avvinghiano, mi trascinano dentro il muro, sono una termite e pungo insieme con i miei simili, con le nostre mandibole ci scaviamo una via attraverso la parete, rovistiamo nel cartongesso, infradiciamo la calcina, ci rimpinziamo delle marce travi in legno, strisciamo attraverso le fessure, i tubi, le condutture elettriche, scaviamo, rosicchiamo e ci facciamo strada verso l’alto, sempre più in alto – me cago en la puta, una porta sbatte. Il letto e la parete tremano.

 

C’è silenzio questa notte, silenzio assoluto. Passa la mano sulla fredda parete. Poi faccio il numero.